Posts Tagged ‘gelo’

I FREDDI RAGGI DEL SOLE – Antefatto

gennaio 24, 2009



VAI ALL’ELENCO DEI RACCONTI

I FREDDI RAGGI DEL SOLE – Antefatto

Monastero di Clusy (Alpi francesi) – 21 febbraio 2006 – ore 5.40

La notte aveva portato altra neve, e all’incerto chiarore di quell’alba gelida e grigia il monastero appariva come sepolto dagli alti cumuli del candido manto.
Il vento, che aveva ululato per ore durante la notte di tempesta, aveva ammassato, in alcuni punti, anche due metri di neve.
Le alte montagne, che facevano da maestosa cornice al monastero di Clusy, erano velate dalla nebbia, e le vette più alte sparivano tra le nuvole basse.
Il silenzio era assoluto, e solamente un filo di fumo che usciva dal camino di uno dei vecchi edifici in pietra del convento testimoniava la presenza di qualche essere umano.
Per il resto il mondo appariva ibernato, terribilmente freddo e inospitale.

La stretta porta in legno si aprì cigolando, i vecchi cardini arrugginiti dai decenni, e frate Paolo, rabbrividendo e stringendosi nella tonaca, si affacciò sul chiostro.
I suoi confratelli, finite le orazioni comuni delle prime ore del nuovo giorno, si erano ritirati nelle loro celle, per meditare e pregare in solitudine, prima di riunirsi nuovamente per la frugale e povera colazione; poi, ognuno si sarebbe dedicato alle proprie attività, indispensabili alla vita del monastero, rispettando la regola del silenzio per l’intera giornata.
Frate Paolo avrebbe spalato la neve, un lavoro duro e faticoso, ma assolutamente necessario in quei lunghi e difficili mesi invernali.
Prima di prendere la pala, però, c’era qualcosa di ancora più urgente da fare, e che non poteva attendere oltre: la coscienza di frate Paolo doveva essere alleviata dal peso che la gravava da alcuni giorni.

Chiudendosi delicatamente la porta alle spalle, frate Paolo s’incamminò zoppicando lungo il chiostro, una nuvola di vapore che si formava ad ogni suo respiro: a settantaquattro anni, di cui quarantacinque vissuti nel freddo di Clusy, l’artrite era diventata la sua ombra, tormentandolo con dolori sempre più acuti.
Ma lui sopportava stoicamente le fitte che lo straziavano dalla schiena alle gambe, riconoscendo benevolmente anche in quella tortura la volontà del Signore.
All’angolo nord del chiostro, frate Paolo voltò a destra, percorse un lungo e oscuro corridoio, superò l’antiquata lavanderia e, socchiudendo appena l’alto portone, uscì nel piazzale antistante il monastero.
Il freddo lo aggredì prepotentemente, insinuando le sue gelide ed umide dita sotto la tonaca, e accarezzandogli perfidamente le vecchie ossa dolenti.
Dopo un attimo di esitazione, frate Paolo, camminando ora con ancora maggiore difficoltà, e affondando fino alle ginocchia nella neve fresca, si diresse verso il limitare del bosco, distante non più di un centinaio di metri dall’ingresso del convento: raggiunti a fatica i primi alberi, iniziò la salita su uno stretto sentiero che, sepolto dalla neve, s’inerpicava ripido tra gli abeti.

Sorreggendosi ai rami, barcollando e scivolando in continuazione, la tonaca già fradicia e incollata alle gambe gelate, i piedi nudi e stretti nei consunti sandali, in pochi minuti frate Paolo, anche se con estrema e dolorosa difficoltà, raggiunse il piccolo cimitero del convento, che si apriva in una radura tra gli abeti, dirigendosi verso la tomba che solo il giorno precedente era stata occupata; con il respiro reso affannoso dallo sforzo della salita, inspirando a bocca aperta l’aria gelida dell’alba, frate Paolo si segnò, raccogliendosi in preghiera davanti alle spoglie dell’uomo che in quel luogo era stato sepolto.
Il freddo era così intenso che frate Paolo, per non rischiare di restare assiderato, dovette ben presto abbreviare le sue orazioni: si fece dunque un’ultima volta il segno della croce, affidando al buon Dio l’anima del defunto, e lentamente riprese la strada del monastero.

Giunto alla fine del sentiero, i piedi ormai resi insensibili dal gelo, frate Paolo si diresse verso la grande legnaia che sorgeva distaccata di poche decine di metri dall’ingresso del convento.
Si concesse un solo momento di leggerezza, sorridendo all’idea che lo scricchiolio della neve che lui calpestava era del tutto simile al rumore che le sue ossa emettevano quando lui si rialzava dal letto o da una sedia.
Ma i pensieri, che non lo avevano fatto dormire tutta la notte, tornarono subito ad occupare la sua mente.

Una volta all’interno della legnaia, muovendosi con circospezione nel buio del locale, si diresse verso l’angolo più lontano: quindi si chinò per spostare alcune fascine e alcuni ciocchi di legna.
Mettendosi poi in ginocchio, da una fessura che si apriva tra la parete di pietra ed il pavimento di terra battuta, frate Paolo estrasse uno spesso fascio di fogli stropicciati, lasciati a lui in eredità dall’uomo che era appena andato a trovare al piccolo cimitero.
Quel manoscritto gli era stato affidato tre giorni prima, quando l’uomo, ormai in punto di morte, aveva lasciato a lui, frate Paolo, suo amico e confessore di trentacinque e passa anni, la decisione ultima: se rendere pubblica o meno la storia della sua vita, gli eventi che in maniera così irreversibile avevano segnato la sua esistenza.
Frate Paolo ricordava con estrema nitidezza quegli istanti: l’uomo, steso nel suo letto di morte, parlando a fatica, con mano tremante aveva consegnato le carte al suo confessore, delegando a lui la soluzione del dilemma che per decenni lo aveva torturato: era forse meglio che il manoscritto morisse con lui, che diventasse cenere come il corpo di colui che l’aveva scritto, o invece era più giusto che tutti avessero la possibilità di venire a conoscenza delle sue colpe e dei suoi errori ? Era meglio essere dimenticati dal mondo e perdersi nell’oblio del tempo o, al contrario, essere ricordati per tutto il male e le nefandezze che lui aveva commesso ?
L’uomo era morto senza riuscire a trovare una soluzione al dilemma che lo assillava: era morto di certo non in pace, confidando, però, nella saggezza di frate Paolo.
Ed ora spettava proprio a frate Paolo prendere quella decisione, anche in onore della promessa che le sue labbra avevano sussurrato accanto a quel letto di morte.
Stringendo quei fogli stropicciati ed ingialliti tra le mani, nel gelo di quella buia legnaia, frate Paolo considerò per l’ennesima volta le due possibilità: sarebbe stato molto più semplice far sparire quelle carte, gettarle nel fuoco e vederle bruciare, annerire e consumarsi fino a ridursi in cenere, divenire polvere come la mano che le aveva vergate.
Di quell’uomo, della sua esistenza, sarebbe rimasta solo la semplice tomba nella radura nel bosco.
Per contro, la sua testimonianza scritta, la storia della sua vita, avrebbe potuto essere un monito, un avvertimento, un richiamo a rinsavire finché si era in tempo per tutti coloro che vivevano la loro vita in modo sbagliato ed effimero: avrebbe potuto costituire, forse, l’ultima ancora di salvezza per chissà quante persone.

Frate Paolo s’infilò il manoscritto sotto la tonaca ed uscì dalla legnaia.
Lo avrebbe reso pubblico, perché, lui ne era certo, era quello il volere ultimo di chi glielo aveva affidato; prima, però, ne avrebbe parlato con i suoi confratelli, e in loro avrebbe trovato il conforto a quella sua difficile decisione.
Affondando di nuovo nella neve, frate Paolo si diresse verso il portone del monastero.
Era talmente assorto nei suoi pensieri che non si accorse neppure che aveva ripreso a nevicare intensamente.

Monastero di Clusy (Alpi francesi) – 21 febbraio 2006 – ore 18.15

– Cosa sappiamo noi, in definitiva, di quest’uomo ? –
Frate Alberto e frate Paolo si trovavano nel corridoio che conduceva alle loro celle.
Avevano appena finito di cenare insieme a tutti i loro confratelli e si stavano avviando verso le piccole e spoglie stanzette, per riposare dopo la dura giornata di lavoro; l’indomani, alle tre, sarebbero stati nuovamente in piedi, per le prime orazioni della giornata.
Frate Alberto, il più anziano tra i frati del monastero, era la persona più adatta per consigliare al meglio frate Paolo: saggio e riflessivo, frate Alberto, anche in considerazione della sua veneranda età, rappresentava da molti anni un sostegno morale e spirituale insostituibile per tutti i suoi confratelli.
Ed era proprio per questa ragione che frate Paolo si era rivolto a lui, esponendogli tutti i suoi dubbi e tutte le sue perplessità riguardanti la sorte del manoscritto che gli era stato affidato.

– Cosa sappiamo noi, in definitiva, di quest’uomo ? Praticamente nulla, frate Paolo. Certo. Sappiamo che un giorno di tantissimi anni fa giunse qui, a bordo di quella lussuosa auto che ancora si trova nel fienile… –
Frate Paolo riandò con la mente a quel giorno in cui lui, giovane frate, vide arrivare la grande Mercedes dalla stretta e sconnessa strada sterrata che nessuna macchina, fino ad allora, aveva mai percorso; e gli tornò alla memoria il potente rumore del motore nel silenzio dei boschi, e lo sgradevole odore degli scarichi nell’aria pura e cristallina di quelle montagne.
L’uomo, la sua anima devastata dalla sofferenza, aveva chiesto ospitalità per qualche settimana, e l’intero monastero lo aveva accolto senza sollevare alcuna obiezione.
La Mercedes era stata riposta nel fienile, e lì era rimasta per quattro lunghi decenni, rudere abbandonato, perché l’uomo che l’aveva guidata non era più ripartito.

– … sappiamo che è rimasto qui con noi per tutto il resto della sua vita, fratello tra fratelli, uomo fra uomini, adoperandosi senza sosta per il bene della nostra comunità, in cambio soltanto di un freddo riparo e di una scodella di cibo.
Sappiamo che con il suo comportamento, irreprensibile e altruista, si era conquistato la stima e la fiducia di noi tutti, e che la sua assenza, oggi, ci rende tristi e ci fa avvertire la sua mancanza.
Ma della sua vita passata, dei suoi peccati e delle nefandezze che diceva di aver commesso, nulla noi abbiamo mai saputo: sapevamo e vedevamo come la sua anima torturata soffrisse a quei ricordi, ma le ragioni di tanto dolore sono rimaste, almeno a me, oscure e sconosciute. –
Anche a frate Paolo le cause dei tormenti di quell’uomo erano rimaste ignote.
Pur essendo frate Paolo la persona a lui più vicina, l’uomo non si era mai aperto e confidato, al punto che frate Paolo, in qualità di confessore, non aveva potuto mai assolverlo da quei peccati rimasti sconosciuti.

Il gelo del corridoio faceva rabbrividire visibilmente i due frati.
Le fioche lampadine riempivano di ombre i loro volti segnati dagli anni.

– Cosa faresti tu, frate Alberto, al mio posto ? –
Gli occhi di frate Alberto, acuti e profondi, vagarono pensierosi per alcuni istanti, per poi tornare a fissarsi in quelli di Frate Paolo.
– Non so quello che io farei. Ma ti dico questo, frate Paolo. La conoscenza è la base della nostra vita: ignorare, o, peggio ancora, voler ignorare, è il più grande degli affronti che noi possiamo fare alla nostra intelligenza di esseri umani. Quell’uomo ha cercato in te, per quaranta e passa anni, quel conforto spirituale di cui la sua anima straziata aveva un disperato bisogno. Ora, morendo, ti ha affidato un ultimo e gravoso compito: portarti a conoscenza di quel suo oscuro passato, rivelarti l’origine e le cause dei suoi mali interiori. Prima di prendere una qualunque decisione, se rendere pubblico o meno il suo testamento spirituale, leggi il manoscritto, immergiti nei suoi peccati, scendi con lui all’inferno e ascolta la sua ultima confessione.
Il suo corpo è ritornato alla terra, ma la sua anima può ancora essere salvata. –

Con queste parole Frate Alberto si allontanò verso la sua cella, lasciando frate Paolo da solo nel corridoio.
La sua ultima confessione, aveva detto frate Alberto.
Quella confessione che, in vita, l’uomo non era riuscito mai a fare, tenendo nel suo cuore i tormenti e i dolori di un’intera esistenza, quasi fosse quella l’unica strada per riparare al male commesso.
E lui, umile frate, era tenuto ad ascoltarla, con il cuore aperto e la mente libera: perché il manoscritto rappresentava, ora gli era evidente, l’ultimo e decisivo passo verso la resurrezione eterna di quell’anima ferita.

Stringendo al petto i fogli di carta, frate Paolo entrò nella sua cella e, alla fioca luce di una lampadina, seduto sullo scomodo letto, prese a scorrere con gli occhi stanchi quella grafia piccola e ordinata.

– continua –



LEGGI IL CAPITOLO 01



SCEGLI UN ALTRO RACCONTO